Al Museo Nazionale del Cinema, in anteprima e in esclusiva per l’Italia, l’ultimo film di Werner Herzog

Cinema Massimo – Dal 9 al 25 luglio 2010

Il Museo Nazionale del Cinema presenta in anteprima per l’Italia l’ultimo lungometraggio di Werner Herzog My Son, My Son, What Have Ye Done? (con Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloë Sevigny, Udo Kier) distribuito da OneMovie, che sarà in programmazione al Cinema Massimo in esclusiva per l’Italia (in versione originale sottotitolata in italiano) da venerdì 9 a domenica 25 luglio (h. 16.30/18.30/20.30/22.30).

Ispirato a una vicenda realmente accaduta, My Son, My Son, What Have Ye Done? è la storia di un mito antico e di una moderna follia. Brad Macallam, un aspirante attore che recita in una tragedia greca, commette nella realtà il crimine che deve mettere in scena sul palcoscenico: uccide la madre. Il film si apre nel momento in cui agenti di polizia giungono sulla scena di un delitto trovando una donna anziana in una pozza di sangue. Davanti alla casa sono radunati vicini curiosi e stupefatti. Il presunto colpevole si è barricato in un edificio dall’altra parte della strada e a quanto pare ha con sé degli ostaggi. Arrivano i due amici cui Brad ha telefonato nelle prime ore del mattino, ma ormai è troppo tardi. Ognuno racconta la propria storia agli investigatori che si occupano del delitto nel tentativo di capire il perché di tanta efferatezza. “Volevo realizzare un film dell'orrore senza il sangue, le seghe elettriche e le scene cruente, ma con una strana paura anonima che striscia piano sotto la pelle”, ha fìdicharato Werner Herzog.

Il film è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009, ed è prodotto dalla Absurda Film di David Lynch.

 

Intervista con Werner Herzog

a cura di Grazia Paganelli

 

My Son My Son, What Have Ye Done è un film cupo e misterioso, popolato di fantasmi, presenze a metà tra la vita e la morte, la realtà e la messa in scena del vero. Ispirato a vicende reali, il nuovo film di Werner Herzog, girato a San Diego con Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloë Sevigny, si presenta come la storia di un mito antico e di una moderna follia: un attore di teatro, impegnato nelle prove di una tragedia greca, finisce per fare quello che, a teatro, non riesce a portare a termine: uccide la madre proprio all'inizio, quando ancora nulla ci è stato spiegato di lui e del mondo che lo circonda. Ci si aspetta un'indagine profonda di quel gesto, un'analisi psicologica di tanta efferatezza, invece il film ci porta dentro un viaggio contraddittorio nei meccanismi della percezione, dove non esistono regole e le cose possono assumere significati prima impensabili. Brad non perde la ragione, semplicemente “si perde” come Aguirre lungo le acque di un fiume ingannevole. “Volevo realizzare un film dell'orrore senza il sangue, le seghe elettriche e le scene cruente, ma con una strana paura anonima che striscia piano sotto la pelle” spiega il regista, che crea la tensione nella demolizione di tutte le regole del genere poliziesco, il pathos mandato in frantumi da una certa forma di assurdo, che, però, paradossalmente, raffigura la realtà nel modo più fedele possibile. Tutto dipende da come si osservano le cose, sembra dirci Herzog, che, di fatto, mette in scena proprio questo ribaltamento. Dove sta la follia? Nei poliziotti impegnati nell'assedio di un giovane che ha per ostaggi i suoi fenicotteri, o in Brad, che ha ucciso la madre con una spada anacronistica? È tutto presente già nel titolo, in quel “Ye” antico posto come interferenza iniziale di un film tutto costruito sulle dissonanze.

 

My Son, My Son, What Have Ye Done è un film tratto da una storia vera.

Il film è rimasto solo un progetto per quattordici anni. La sceneggiatura risale alla fine degli anni Novanta ed è stata scritta insieme a Herbert Golder che ha lavorato con me come assistente. È professore di lettere classiche e ha tradotto in inglese le tragedie di Sofocle. Golder è sempre stato affascinato dalla messa in scena delle tragedie greche e si è imbattuto nella storia di questo bravo attore Mark Yavorsky che aveva interpretato l’Orestiade in un teatro di San Diego e che finì per uccidere sua madre esattamente come Oreste nella tragedia. È una storia spaventosa in cui non sai mai esattamente da dove provenga l’aspetto horror. Anche se gran parte della vicenda è liberamente ispirata alla vita di Yavorsky, molti dialoghi da me usati sono citazioni precise degli interrogatori registrati dalla polizia.

 

Lei ha incontrato personalmente Mark Yavorsky.

Ci siamo incontrati una sola volta. Dopo aver trascorso otto anni in un manicomio criminale di massima sicurezza in Massico, l’ho trovato che viveva in una roulotte decrepita vicino a Riverside. Quando sono entrato ho sentito immediatamente la necessità di andarmene perché c’era un poster del mio film Aguirre, furore di Dio in una specie di altarino con le candele. Ho capito subito che non aveva senso né per me, né per lui, né per il film stesso che nascesse tra noi un rapporto di collaborazione. Mark, tra ‘altro, è morto tre anni fa. Il film ovviamente ha poi preso un’altra direzione.

 

Ci sono molte analogie con Aguirre, furore di Dio. A partire dal protagonista che è forte come Aguirre, ma ha anche quella disarmante innocenza che era propria di Woyzeck.

C’è della verità in questa analogia. Quando ho letto la documentazione che Herbert Golder aveva raccolto, mi sono convinto immediatamente che si trattava di una grande storia. Non ho fatto nessun collegamento con Aguirre ma è interessante che lei lo citi perché Mark Yavorsky era affascinato da Aguirre. Per due o tre anni io e Golder abbiamo tentato di scrivere la sceneggiatura, ma non riuscivamo ad andare avanti. Allora ho proposto a Herbert di ritirarci per un periodo nella mia casa in montagna in Austria. Avevo deciso che non mi sarei mosso prima di aver terminato di scrivere tutto e ho avvisato Herbert che probabilmente l’avrei cacciato nel giro di una settimana. Così abbiamo fatto. La cosa interessante è che questo progetto, che è rimasto in sospeso a lungo prima della sceneggiatura, è rimasto sospeso ancora per molti anni, prima di diventare un film, perché non riuscivamo a trovare i soldi per realizzarlo.

 

È molto interessante e, per certi versi nuovo, l’uso della musica che sembra esaltare gli elementi di contrasto e assecondare una certa fissità astratta di alcuni momenti.

È vero, anzi, a volte i personaggi stanno immobili fino alla fine di una canzone. Questo ha a che fare con il mio lavoro con il musicista Ernst Reijseger. Insieme abbiamo inaugurato un nuovo livello di collaborazione. Nel film c’è più musica di quanta ne abbia usata in passato, e alla fine si viene a creare una dinamica molto strana tra i diversi momenti. All’inizio e alla fine del film abbiamo inserito una canzone della cantante messicana Chavela Vargas, poi una canzone bellissima di Caetano Veloso, già usata da Almodovar, e poi una canzone del cantante texano della seconda metà degli anni Venti, George Washington Phillips.

 

Si nota un grande lavoro di squadra tra gli attori. C’è una forte coesione tra loro che crea una straordinaria atmosfera.

La recitazione degli attori deve rientrare all’interno di una tessitura più generale, ognuno è parte di un insieme che deve funzionare come una formula chimica. Non si può pensare al casting come ad attori separati gli uni dagli altri che lavorano ognuno per se stesso. E poi il protagonista, Michael Shannon è un attore estremamente dotato. Prima di questo film, gli avevo affidato un piccolo ruolo ne Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans come “riscaldamento”. Subito dopo ha ricevuto una nomination all’Oscar per Revolutionary Road. Avevo molta fiducia in lui e lui ne aveva in me. È stato molto bello lavorare con lui, avrà un grande futuro.

 

Che tipo di collaborazione c’è stata con David Lynch?

Non è stata una vera e propria collaborazione. My Son, My Son, What have Ye Done è stato prodotto da una società affiliata alla casa di produzione di Lynch. Ho parlato di questo progetto con David Lynch, che abita non lontano da casa mia, un giorno mentre ce ne stavamo nella sua cucina. Ci siamo detti che avremmo dovuto fare insieme dei film per raccontare grandi storie, ma con budget ridotti e senza le star da venti milioni di dollari. Ci siamo entusiasmati molto. Lynch mi ha confidato che per lui questo progetto significava un po’ tornare ai tempi dei suoi primi film e quando gli ho detto che avevo un progetto già pronto, mi ha chiesto di iniziare a lavorare subito. Lui sarebbe comparso come produttore esecutivo, ma per tutta la lavorazione del film si è tenuto a distanza. Bizzarramente, anche se non ha avuto parte attiva, il suo cinema e il mio film hanno trovato un punto di contatto in alcuni momenti. La gente pensa che abbiamo collaborato, che abbiamo scritto insieme la sceneggiatura, ma la verità è che Lynch non ha avuto alcun ruolo, né nella sceneggiatura, né nella regia, né in fase di montaggio e neppure nella scelta delle musiche.

 

L’attrice Grace Zabriskie, però, è un’attrice “lynchiana”.

Lei è bravissima. L’ho scoperta proprio grazie al film di Lynch Inland Empire. Quando l’ho vista mi sono detto che avrei dovuto lavorare con lei.

 

Los Angeles, 6 luglio 2010

 

L’intervista è pubblicabile, in parte o totalmente, citando la fonte e l’intervistatrice.